"IL Corpo"
- di Mary Grace Ovedi-
Mi
affacciai alla finestra e lo vidi.
Pensai fosse addormentato tanto la sua
posizione era naturale e quel vago pensiero che si era posato incosciente su di
lui si rivolse altrove.
Mi
affaccendai in qualcosa d’altro e dedicai la mia attenzione
a occupazioni più
materiali e contingenti. L’applicazione manuale mi concentra e mi cattura
completamente. I pensieri, remoti rimangono relegati in secondo piano,
lavorando in sordina e non disturbando
i miei movimenti e le mie azioni.
Probabilmente quella visione rimase latente, sin da quel
primo momento, nella mia mente ma io non l’ascoltai, non la guardai,
non la
focalizzai, non la memorizzai.
Lo vidi ancora, il giorno dopo ed il
giorno dopo ancora,
ma ugualmente, con la solita distrazione, senza soffermarmi
o riflettere su ciò che vedevo.
Lui era lì, nella medesima posizione.
Immobile, apparentemente addormentato.
Nessun
pensiero cosciente attraversava la mia mente:
quell’immagine apparteneva
semplicemente al panorama,
all’insieme, alla quotidianità.
Non
risaltava, non stonava, in ciò che mi circondava.
Faceva parte
della vita, quella che distrattamente ogni giorno mi scorreva davanti agli
occhi, monotona e inalterata.
I soliti gesti,
la solita routine, gli stessi medesimi movimenti si ricalcavano ogni giorno,
come su carta carbone, tali e quali a quelli del giorno prima ed a quelli del
giorno prima ancora.
E lui
continuava a rimanere lì, come addormentato.
La mia mente,
inconsciamente, lo aveva catalogato così:
“addormentato” e lo aveva lasciato lì
a continuare a dormire, senza porsi alcuna domanda, senza alcuna curiosità per
quel sonno ininterrotto
ed innaturale, che non doveva finire mai.
Dentro di me
nessun pensiero razionale scaturiva alla sua vista:
lui semplicemente ed
innocuamente stava lì, non dava fastidio
a nessuno, non attirava l’attenzione
di nessuno, non mancava a nessuno.
Composto,
immobile, se ne stava in quella sua
posizione naturale, dignitosa, quasi artistica. Neanche l’avesse provata e
scelta tra tante. Aveva del poetico. Era soave, delicata.
Quando
finalmente la mia vista esteriore lo focalizzò fu perché vidi
il movimento del
vento che lo sfiorava e muoveva leggero e delicato quello che era destinato a
rimanere fermo e immobile bloccato nel
tempo.
E
un leggero brivido mi percorse, come se quel vento fosse passato
sul mio corpo
e m’avesse sfiorato con le sue dita invisibili.
Sentii
il suo tocco e mi immedesimai nel corpo.
Sentiva
anche lui quel che sentivo io o le dita del vento gli erano indifferenti?
Una
raffica più forte del vento, quasi in risposta alla mia domanda impossibile, lo
sospinse e lo smosse un po’ di più ed io ancora provai
il brivido tra i
capelli, sulla pelle.
Nell’anima.
Avevo
visto: gli occhi avevano finalmente trasmesso al mio cervello l’immagine di ciò
che era davanti a me.
Un
corpo inanimato, immobile, meraviglioso nella sua bellezza e dignità, ma
decisamente morto. Non addormentato,
come inconsciamente avevo voluto credere:
ma morto.
Me
lo aveva confermato il vento.
Me
lo aveva fatto sentire a pelle, trasmettendomi
l’emozione del brivido,
quell’emozione che era invece passata sul corpo immobile, senza riscontro,
senza suscitare passione, senza generare vitalità: il corpo era rimasto
immobile, meraviglioso e dignitoso nella sua posa statuaria.
Insensibile. Inerte.
La
mia anima tremò in quel momento, non per il vento, non per il brivido, ma per
il vento e per il brivido che il corpo non percepiva.
Tremò
per la morte, per l’immobilità, per l’indifferenza con cui
il corpo lasciava
che il vento lo sfiorasse, lo scuotesse, gli girasse intorno senza che lui gli
si opponesse, senza che lui si proteggesse.
Tremò
per l’immotezza, per la calma, per la pace con cui il corpo restava lì, giorno
dopo giorno, sotto la pioggia, sotto il sole, sotto le stelle e la luna, senza
muoversi mai, senza cambiare mai la sua poetica posizione, senza mutare la sua
soave bellezza, senza opporsi mai al tempo.
Tremò
per lo sgonfiarsi, il rattrappirsi, lo sfaldarsi, il deteriorarsi di quel
corpo, tremò per l’appiattirsi di quel corpo svuotato della vita.
Sono
davanti alla finestra ed il mio sguardo è fisso, posato su di lui.
La mia anima
è un tutt’uno con lui. Mi lascio scuotere dal vento, e resto ferma, immobile,
insensibile.
Quel corpo potrebbe essere il mio,
forse lo è ed il guardarmi
dall’alto, dall’esterno, da lontano, altro non è che
la proiezione astrale di ciò che fui o che sarò.
Sento il vento passare leggero e
sollevare le mie piume, solleticandole e rendendole vive come erano quando
volavo, come quando aprivo e scuotevo le mie ali, immense libere nel cielo.
E dentro di me si risveglia il ricordo di voli e di cieli
trascorsi e di visioni caleidoscopiche di paesaggi percorsi e doppiati nelle
lunghe traversate e trasvolate.
E con quello si risveglia anche il grande dolore, il grande rammarico,
il grande rimpianto di quei cieli trascorsi e di quelle visioni trascorse,
lontane, irraggiungibili e irripetibili.
E’
morto qualcosa dentro di me. Si è fermato, si è addormentato ed è morta la mia
voglia di vivere, la mia voglia di volare.
E’
morta ed è racchiusa in quel corpo immobile, bellissimo e svuotato che resta
insensibile in balia del vento, della pioggia, del sole, della luna, inerte a
non lottare, a non desiderare, a non bramare più di volare, di andare, di
respirare, rimuoversi.
E’
morto ed è lì davanti ai miei occhi, materiale e fisico, come il corpo di un
gabbiano in putrefazione, a monito, a memoria,
a preveggenza di ciò che è stato
o che sarà.