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giovedì 15 dicembre 2011

* La Voce d'Anthea *



La voce d’ Anthea
- di Mary Grace Ovedi –
Di neve vestita, sul bianco destriero    al vento sfrangiava le vesti ed i lunghi capelli.
Correva, volava e ovunque
cercava.
Una stella voleva per sé                          
per vivere, per amare.
Una stella che brillasse luce d’amore,
una stella che scaldasse il suo cuore.
Di neve vestita
ghiacciata viveva, ghiacciata pensava:
“ Una stella vorrei avere per me
per me che di ghiaccio
si prospetta la vita,                                                
per me che di bianco
sarò sempre vestita.
Una stella, una stella.
Un amore lucente, un amore struggente.
Un amore che mi sciolga l’incanto
e che mi tenga a se accanto.”
E correva, correva nel vento …
Nel cielo….
Così mi raccontava Anthea e con gli occhi sognanti guardava lontano, come se questa sua narrazione  scorresse reale e vivida dinnanzi a sé.
Ma era misteriosa…. era magica, Anthea.
Anthea raccontava fiabe, quelle sfuggite, quelle da nessuno mai inseguite, quelle fluttuanti nell’aria, quelle sotto le ninfee adagiate, tesorizzate. Quelle racchiuse nel cuore, quelle mai venute fuori. Quelle che ognuno vorrebbe ascoltare, quelle che ognuno vorrebbe vivere e incarnare.
Una sola volta gliela udii raccontare e subito mia la sentii, come se uscisse da me, come se parlasse per me. L’eco della mia voce diceva: “Di neve vestita, sul bianco destriero, al vento sfrangiavo le vesti ed i lunghi capelli. Correvo, volavo e ovunque cercavo. Una stella volevo per me, una stella che splendesse per me. D’un Malvagio l’incanto m’aveva ghiacciato, facendo di me un cristallo, splendente, lucente ma freddo, freddo come la neve. Come la neve che ghiaccia, che arresta, che blocca, che immobilizza. Questo era infatti l’incanto: ghiacciare, freddare, bloccare, immobilizzare tutto e tutti intorno a me ed esser quindi condannata a restare sempre da sola a vagare, a cercare. A cercare qualcosa o qualcuno che mi sciogliesse l’incanto, che sciogliesse il mio cuore appuntito e tagliente.                                         
- Una stella, soltanto una stella, in tutto  l’universo, potrà sciogliere questo tuo cuore di ghiaccio, che di bianco ti vestirà la vita, che di ghiaccio ti circonderà la vita, che di neve e di gelo ti spazzerà via ogni calore, ogni colore. Una stella che d’uguali nessun’altra vanta. Una stella che non di luce brilla, ma di calore, d’ardore, d’amore. Una stella che non è una ma due. Esiste ed è la tua unica salvezza. L’unico antidoto a questo mio incanto, perché poi …ah. ah. ah… così malvagio non sono… Ma infinito… infinito è l’universo… ah. ah. ah. 
E rideva, rideva, grottescamente il Malvagio mentre il gelo s’impadroniva di me, della mia mente, del mio cuore, delle mie carni, delle mie vesti, dei miei lunghi capelli.                                 
- Esiste: è unica e rara e brilla solo per te in un universo di stelle. Brilla, brilla e ti scioglie la neve, ti scioglie il pallore, il biancore. Avrai calore e colore e avrai un amore…. Ricorda: due stelle in un’unica stella…. in un universo di stelle … ah. ah. ah. …Ti  faccio anche volare ….Vai …. a te l’arduo cercare….. Ti dono anche un cavallo perché non si dica di me ch’io sia malvagio….. ah. ah. ah….. –
uesQQ
Questo sentivo, questo tornava a ricordare la mente di ghiaccio mentre disperatamente a me stessa chiedevo: “Amore, amore, ma esiste l’amore?”
E sbandavo, m’alzavo, planavo in cerca di stelle…
Miriadi infinite di stelle, luminose, abbaglianti e in ognuna scrutavo, in ognuna cercavo l’altra gemella, ma ahimè tutto freddo restava ed il gelo intorno a me non mutava.
Erano belle, ricche, sfarzose ma vuote, tristi, sole e fredde più di me. E a niente valeva la luce, lo splendore se nulle erano di calore.
Di neve vestita, sul bianco destriero al vento sfrangiava  le vesti ed i lunghi capelli.
Correva, volava e ovunque
cercava.
Una stella voleva per sé
per vivere, per amare
ed il tempo l’aspettava paziente.
Già tre anni
avrebber dovuto essere andati.
Tre anni  in cui niente invece mutava
perché silente e paziente
il trascorrere aspettava.
Di neve i lunghi capelli
di bianco vestita
correva, volava …..” 
Anthea raccontava…
Da tre anni vagavo, da tre anni cercavo, due stelle in un’unica stella che brilla non di luce ma di calore, d’ardore, d’amore.
“Amore, amore, ma esiste l’amore?”
In tutto l’universo una sola la stella d’amore, in tutta un’esistenza uno solo l’amore e forse non incontrarlo…
No, dovevo ancora cercare, ancora volare, ancora…
                                                                     
Volava e non disperava:  Voleva una stella  per vivere, per amare.
Veniva intanto per gli altri
Natale.
Ancora più luci,
ancor più splendore,
soltanto intorno a sé
tanto biancore.
Il bianco destriero impazziva, scalciava.           
Impaziente voleva Natale.
Stanco era d’errare.
Dritta la via, per non sbagliare
un magico corno
si fece spuntare….” 
Anthea continuava a narrare.
Quando ti fui accanto, per poco non seppi, ma fu solo un istante. Il calore mi attraeva la mano ed io l’allungai, ti sfiorai… Non una stella ma un volto: in esso due stelle d’uno sconcertante limpido azzurro mi sciolsero d’incanto l’incanto ed io di rosso mi ritrovai vestita, di calore mi trovai circondata, d’amore mi sentii abbracciata.
                                                                                       
L’unicorno intanto non l’aveva lasciata. Anzi in umano s’era mutato e lei sorpresa lo riconobbe: era il  Malvagio.
Ma era un buon mago, non era malvagio.
Era un Veggente
e dal suo cuore di ghiaccio
l’aveva salvata.                                     
                                                                
Così mi raccontò in quel giorno lontano la magica voce  d’Anthea ed il mio cuore oggi è felice.             
                                  
           
e SBA      
EeEEEEE     
E

martedì 13 dicembre 2011

* Gabbiano Babilo *

                                                                                 

                                                                                                                                                     
Gabbiano Babilo
- di Mary Grace Ovedi
                                                                      
                                        
     Arroccato sulla torre, da tempi immemorabili, guardi avanti a te.
Sembri di pietra, scolpito nella torre sgretolata, dimezzata.
Dimentichi del tempo, i tuoi occhi, i più belli rimasti aperti tanto a lungo, fissi lontano guardano rapiti.
Non un movimento, non un battito.

Spalancati, madreperlacei, immensi: un universo.
                                                          
     Da quando esisti? Sei nato ora? Mille anni fa? Che importa!
Tu, con un universo da scoprire. Un universo aperto su un universo.
Tu l’universo in cui guardare.
     Ma non c’è nessuno a guardarti.
Tu solo.
Tu solo: anelante a forma.
Tu solo: occhi aperti, spalancati sull’immensità.
Lineamenti appena appena accennati che si celano in un abbozzo di corpo, in un ammasso di pietra indefinito, parte integrante della torre sgretolata.
Tu, un lavoro iniziato, lasciato a metà, dimenticato su una torre.
Un orgoglio ferito: la torre è crollata.
La torre non arriva al cielo.
                                                             
     Guardi in alto, su nel cielo e gli occhi sognano.
Vedi prospettive, avverti sensazioni che non puoi provare: tu non hai corpo, tu non esisti.
Tu sei due occhi e un universo.
     Sì, tu sei un universo, io ti vedo.
Vedo due fiamme che si levano alte, che bruciano, che ardono.
Vedo due ali che fremono, che vogliono librarsi, che vogliono volare.
Vedo uno stridio forte, struggente, una voce ultrasonica che squarcia il silenzio.
Vedo due zampe che bramano la terra, l’acqua, il cielo.
Vedo il silenzio andare in mille pezzi.
Vedo il silenzio infinitesimale frantumarsi, esplodere, proiettarsi in mille direzioni.
Vedo la luce squarciare il silenzio, l’impassibilità, la freddezza, la compostezza della pietra.
                                                              
     Dura è la roccia, eppure mobile, duttile. Ondeggiante, informe, rigida, eppure morbida, friabile, eppure palpabile, eppure tumultuante.
            Fremi, lo sento. Ciononostante sei immobile.
Guardano gli occhi, guardano e non si chiudono, non si muovono.
Si colorano, si accentuano, si accendono, brillano, scintillano.
Ti senti grande, potente, ti senti universale ma … ma non ci sei:
                                                              
     Come puoi? Tu non esisti: tu sei due occhi ed un ammasso di pietra, roccia sgretolata di una torre, una torre crollata, una torre che non arriverà mai al cielo.
Un orgoglio spezzato, ferito. Una vanità annullata, annientata.
                                                                   
     E, nel tempo, sei rimasto lì, presente sempre presente, eppure invisibile agli occhi umani, mimetizzato, per mancanza di corpo, in un rudere fatiscente.
Passano le luci, mutano i colori, gli odori, le temperature e tu sei sempre sì, gli occhi aperti, spalancati, madreperlacei, immensi, sempre più immensi, sempre più lucidi, sempre più eccitati, sempre più avidi.
Frugano, scavano, scavalcano, attraversano, fendono e vanno oltre, ti trasmettono la verità. La verità che viaggia sulle onde, la verità che vive nelle sfumature, la verità che ti trasmette la luce, il vento, il freddo: le sensazioni.

                                                                     
     Qualcosa sta cambiando in te.
Sì, io lo vedo da quaggiù.
Piccole pietre rotolano giù mentre la roccia muta.
C’è stato un movimento. L’ho visto o l’ho immaginato?
No, eccolo di nuovo.
      Due grandi ali si sono stese. Due grandi, immense, meravigliose ali si sono aperte nel cielo.
Sono di pietra e si muovono.
Gabbiano Babilo, si muovono le tue ali, si muovono 
                                                         
     No, non chiudere gli occhi adesso. Oh! Lo so, sei stanco, ma non adesso.
I tuoi occhi non possono chiudersi adesso, non possono permettersi un attimo di tregua, di riposo.
Una briciola di verità potrebbe sfuggirti, potrebbe mostrarsi a te in questo preciso istante e allora tutto sarebbe stato vano, tutto sarebbe stato inutile.

                                                               
Il tempo trema, inesorabile che sia, nel trascorrere d’un battito.

Potrebbe crollare l’Olimpo, potrebbero crollare gli Dei! “
                                                              
   
     Apri gli occhi, Gabbiano Babilo, e guarda il mare.
Guardalo, Gabbiano Babilo, guardalo e raggiungilo.
Ti darà vita, ti darà gioia, ti darà una mèta, un orizzonte, una ragione.
Ti dirà una verità.
Sì, lo vedo già in te. I suoi mille colori sfavillano ad uno ad uno nei tuoi occhi e le sue onde ti fanno forte, le sue burrasche coraggioso, le sue isole intraprendente.
Guarda, Gabbiano Babilo, guarda ancora, non lasciarti prendere dall’emozione, non lasciare che le lacrime ti annebbino l’universo.

                                                                 

    Guarda. Il cielo ti chiama, ti sfida a percorrerlo.
Guarda le nuvole che vogliono essere rincorse, guarda le stelle che disegnano figure magiche per te, per la tua sensibilità sognatrice, per i tuoi pensieri lontani, per la tua fantasia.

    Seguile.

                                                          
      Guarda la terra, Gabbiano Babilo. Guarda come brama i tuoi passi, come attira la tua figura, come gode del tuo peso, come ci tiene a mantenere l’impronta del tuo passaggio.
Guarda, Gabbiano Babilo, ancora pietre rotolano giù.
La roccia s’è arresa.
Il silenzio infinitesimale s’è frantumato, è andato in mille pezzi.
Rotola giù, giù, come la roccia e la tua luce prorompente squarcia la freddezza, la compostezza della pietra.
Tutto in frantumi, frammenti che rotolano giù, giù e  … imponenti affiorano, si svelano, si liberano le tue zampe.

                                                           

     Guarda, Gabbiano Babilo, guarda: le tue zampe!!!
Scrollati ora.
                         Sei libero e leggero: vola!
                                                                         
                                                                                 
                                                                        

lunedì 12 dicembre 2011

* Musicante *



 Musicante
- di Mary Grace Ovedi -
                                                                                                  
  Affiorò. Con la luce del primo tramonto.
             Per lei che da tempo raggiungeva quel luogo selvaggio, antico, di scogli impervi e pietre granitiche cadute dal cielo.
         Per lei che cercava, che fantasticava, per lei che aveva bisogno di una mèta, di un sogno, d’una favola per continuare, per lei che altrimenti si sarebbe lasciata andare.
      Per lei, tra la sabbia bagnata ed i suoi occhi increduli, affiorò.
         Poi scomparve, con l’onda lieve che tutto vela e tutto svela, che tutto lascia e poi riprende. E lei sperò, in cuor suo, che tornasse, che si mostrasse di nuovo.
              Da sotto i piedi, impercettibile, la sabbia sembrò sfuggirle, risucchiarla, mentre l’acqua scivolava via, come un filo d’argento che s’arrotola lontano.
              Ma quando lo scintillio fu del tutto assorbito, tra la sabbia bagnata di nuovo affiorò.
             Era di colore bianco candido e ondulata, sebbene levigata. Grande poco più di un pugno ma elegante  e slanciata, dai lineamenti fini, giovani e non ancora inquinata.
           Con una punta di stupore Airam s’affrettò a raccoglierla e a trarla lontano dall’onda che certo sarebbe tornata a cercarla per portarsela via.
            Scendeva intanto la sera, mentre la luna di contro saliva e splendeva alta, sovrana nel cielo.
          Airam, seduta, la stava a guardare, alternando lo sguardo tra il bianco candore della conchiglia e il bianco bagliore della luna.
          Avevano certo qualcosa in comune. Una storia, un ricordo, un’esistenza vissuta. Sì, lei lo sentiva, come un filo sottile ma teso, su cui correva invisibile un fluido. Un’energia forte, potente da spaventarla, ma altrettanto misteriosa, altrettanto magica da affascinarla.
          E si chiedeva se mai anche a lei sarebbe stato dato di conoscere qualcosa di quel fluido, di quella magia, di cui sembravano così complici, così coscienti, la conchiglia e la luna: un segreto profondo, un’alchimia.
         E fantasticava,  Airam, per saziarsi, per soddisfarsi, per sperare. Per avere una ragione per cui continuare.
         Lo sguardo assorto a cercare.
      Non s’accorse che qualcosa intanto cambiava: non era più sola.
        Qualcuno sulla spiaggia sedeva accanto a lei ed una musica lieve lo circondava, come un’aureola, come un manto.
        La musica la raggiunse e lei si voltò.
        Era forse un cantore, o un poeta, chissà …
        Airam, incantata, rimase a guardarlo.
       Lui cantava, o forse suonava, o forse narrava. Forse semplicemente ricordava.
                                                                              
Io canto la luce, i colori, la vita, le sensazioni, le emozioni che sono nate con me in quel mondo che fu mio. In quel mondo fatto solo di libertà e d’amore.
In quel mondo di cui non a tutti è dato sapere.
Questa conchiglia che ti rigiri tra le mani è la mia compagna. Lei è nata con me, nella mia terra, ed è con me che è cresciuta, con i miei passi che ha camminato, con la mia musica che ha vinto le tempeste ed il mare.
Approdammo, in un tempo che non so ritrovare, su questa spiaggia, dopo una terribile tempesta. E fu allora che lei mi lasciò, per paura.
Si nascose tra la sabbia credendo che fosse più forte di me, o forse più ricca, più brillante, chissà. Ed io son condannato da allora a vagare, come un trovatore senza mèta, per starle vicino, per parlare di lei , per far sapere di lei. Di lei che fu il mio mondo, di lei che fu la mia Dea.
Il mare allora ci apparteneva e le nostre mète più ardite erano scogli remoti, lidi sconosciuti, mai da altri raggiunti.
E noi, conchiglie dischiuse, con tesori immensi da offrirci.
Un “si  di conchiglie” per essere liberi, uniti e felici, testimoni il vento, gli uccelli ed il mare.
Ed io canto perché quel mondo non vada perduto, ma resti nell’aria, nelle onde, nelle molecole, nel vento e ritorni … ritorni “.                                                                          
                                                                               
        Airam,  gli occhi lucidi,  ascoltava.
                                                                                                                                                                                   
                                                             
“ Dicono che la mia conchiglia è morta, che questo è l’ultimo suo lido e che la sabbia e l’acqua la coprono e la scoprono perché era bella, perché era una Dea.
Io non so se sia morta. Non m’è dato più di raggiungerla.
Ora sono un musicante, non più una conchiglia di mare dischiusa.
La mia valva distrutta, il mio regno perduto.
E per me lei rimane la Dea di cui cantare, la bellezza, il tesoro da non dimenticare.
Ma la sua voce non mi giunge più. Il suo canto non lo sento più.
L’eco del suo “ sì “  l’ho solo nella mente.
La vedo, ma è una conchiglia come tante, portate a riva dall’alta marea e abbandonata al volere della luna, che  può forse ridonarla al mare ma anche abbandonarla in balia del giorno, del sole.
A te che la tieni tra le mani, io povero poeta e musicante, chiedo: riportala al mare, riportala alle onde, perché tra l’acqua e la sabbia lei torni a ricordare. A rivivere sensazioni ed emozioni, a sentire di me, della mia musica lontana. Ed io forse sarò libero. Libero di andare e di raggiungerla su spiagge sconosciute, su scogli impervi, oltre orizzonti evanescenti, oltre frontiere selvagge di mare, oltre anche il sole, oltre anche la luna”.  
         
     Airam il cuore stretto e gli occhi lucidi, lo stava a guardare e ad ascoltare, finché … il cuore le scoppiò.
        Lei aveva bisogno d’amore per non morire.
       E odiò la luna per averle lasciato sentire, per averle lasciato vedere quel segreto, quell’alchimia.
        E, come per magia, tutto intorno si ridimensionò.
        I simboli vacillarono. Poi caddero.
     Si tolse la maschera il musicante e lei pianse per averlo perduto. Lei che aveva bisogno di una favola per continuare.
      Cadde la maschera del canto, della musica, delle parole e lei pianse per averli perduti. Lei che aveva bisogno di fantasticare per continuare.
        Cadde la maschera della luna e lei pianse per averla perduta.
Lei che aveva bisogno di una mèta, di un sogno per non morire.
        E cadde la maschera della conchiglia.
        E lei pianse per averla voluta.
        Lei che aveva bisogno d’amore per non morire.        Nella luce del primo tramonto, lei che da tempo non raggiungeva quel luogo selvaggio, antico, di scogli impervi e pietre granitiche cadute dal cielo, da sotto i piedi sentì la sabbia sfuggirle, risucchiarla mentre l’acqua, filo d’argento, s’arrotolava lontano.
    Scesa rapidamente la sera, in un punto, lì tra la sabbia, l’onda lieve che tutto vela e tutto svela sembrò indicarle qualcosa.
       Un raggio della luna nascente vi si rifletteva creando un’ombra, una forma, un’idea. Una conchiglia. “E lei pianse per averla voluta”.
                                                        

                  Non cantare per me musicante
                           non suonare,
non raccontare. Lo so che vieni di lontano
ed hai tanto da ricordare
ma anche il mio cammino
si perde nel passato.
E’ da lontano che son partita.
Ascolta nel mio silenzio.
Parole e parole,
le tue parole,
s’incidono e non se ne vanno più.
Tornano gli echi e la malinconia,
la tua, la mia.
E più duro, più pesante
è camminare
è andare avanti.
* * * 
                                                                      
        S’affrettò Airam a raccoglierla e a portarla lontano dall’onda, che certo sarebbe tornata a coprirla e scoprirla di nuovo.
        Era di colore bianco candido e ondulata,  sebbene levigata .
        Grande poco più di un pugno ma elegante e slanciata e non ancora inquinata.
        Con una fitta al cuore Airam alternò tristemente il suo sguardo, ormai cosciente, tra la conchiglia e la luna.
        E lì, di fronte al mare, la gettò lontano dal suo cuore.