Sotto la
coltre di una notte greve e pungente,
lunga e
insidiosa
quanto
l’inquietudine
che
lastrica i sentieri
battuti
dai palpiti scomposti del mio cuore,
occultata
nelle spire del fallace oblio,
diramo.
E al
viscoso tronco d’umido muschio asperso
m’avvinghio
e ai rami
m’aggrappo
di quel
germoglio che dall’anima palpitante
verso
l’infinito protende.
Raspando
risalgo
rami tortuosi
pregni di
gemme frammiste a dolori:
eoni di
giorni e di notti frammisti a sogni,
delusioni
e rimpianti.
Gemiti e
dolore ancora mi strappano
e scavano
lancinanti ferite.
Indifferente,
le ignoro
perché
più non soffre un cuore esangue impietrito.
Ambigua e
rapace
sopra di
me la notte
m’alletta.
Stremata,
alla sua
soporifera vacuità
ancora
resisto.
Strisciante
verso la
cima protendo.
Lì dove i
rami sottili
ancor più
s’assottigliano
fino a
sfiorare con le gemme nascenti
il
bagliore accogliente
della
luna primeva.
E lì
solo, come gemma nascente,
sfumo
appagata
nel mio
rifiorire.
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